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Henry Hazlitt, ovvero elogio della semplicità in economia.

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Pubblichiamo di seguito la prefazione al testo “The Inflation Crisis and How to Resolve It” di Henry Hazlitt, ad opera di Filippo Martini; seguirà, a cadenza regolare nelle prossime settimane, la pubblicazione integrale del volume. Ad arricchire la capacità di sintesi e chiarezza espositiva di Hazlitt si aggiunge, dunque, il prezioso punto di vista di un traduttore competente tanto in materia di studi economici che finanziari, settore chiave nella fase del ciclo economico che oggi stiamo vivendo.

Mises Italia

PREFAZIONE

Diceva Ludwig Von Mises: “Good Economics is simple economics”.hazlitt Mai frase fu giudicata più infelice dall’accademia economica cosiddetta mainstream.

Per chi, come me, ha fatto studi economici a livello universitario l’unica cosa semplice sembrano essere i titoli dei volumi; e non sempre. Nel secolo scorso sembra esserci stata una corsa alla complicazione teoretica di questa scienza, che ha portato, come in altri campi, ad una frustrante auto-referenzialità accademica.

Ma la conseguenza peggiore di questa complicazione è costituita dall’innesto posto nelle giovani menti che la studiavano, portate a credere, più o meno fermamente, che se la spiegazione non risulta incomprensibile ai più e densa di metodo matematico, ecco, questa non ha il valore né la struttura per sostenere eventuali tesi contrarie.

Vecchia e nuova complessità

Senza scendere in testi universitari specifici, pensiamo alla differenza che intercorre tra il famoso “The Wealth of Nations” di Adam Smith, del 1776 [1], ed un importante lavoro di economia contemporanea (chiamiamolo così).

Per quanto possa risultare di difficile comprensione a causa del linguaggio arcaico, superato che abbiamo questo ostacolo risultano immediati al lettore gli obiettivi che Smith cerca di raggiungere. I metodi che utilizza per raggiungerli nella maggior parte dei casi sono altrettanto semplici; e, quando non lo sono, vengono correlati da esempi immediati (si pensi al famoso aneddoto sui mestieri, o alla fabbrica di spilli).

Si potrebbe obiettare a tali affermazioni ricordando la sua antiquata verbosità e di come possa essere stato difficile da comprendere un testo del genere; e questo rimane vero. Cionondimeno, la difficoltà che si riscontra è lungi dall’essere di tipo economico. È semmai lessicale, tipico di un’epoca che teneva alla lingua ed alle distinzioni sociali che si creavano nel mondo accademico (non che adesso non accada; ma ora, essendo nell’era del buonismo ipocrita, tutto ciò risulta malcelato dietro maschere grottesche talmente ingombranti che nascondono sia la bravura che l’ignoranza, in egual modo). Superato questo scoglio, la linea appare piuttosto semplice, in gran parte partendo essa dal commercio individuale e dalle situazioni giornaliere come portatrici di verità riutilizzabili anche in ambito macroeconomico.

Prendiamo invece un testo economico moderno/contemporaneo, ad esempio “Essays on the Great Depression” [2] di Ben Bernanke, attuale governatore della Federal Reserve, il più grande monopolio del mondo, stimolato nelle sue odierne fattezze da quel paradosso accademico incarnato dalla Scuola di Chicago. Ebbene, la prima impressione che si ha davanti ad un testo come quello è di essere un novello Champollion davanti ad una parete cosparsa di geroglifici, privi però di stele di Rosetta e, nella maggior parte dei casi, anche della necessaria abilità linguistica per interpretarla.

Tutto questo conduce i più a demordere, non possedendo essi le giuste armi per continuare la lettura e cimentarsi in un confronto con quelle teorie. Tuttavia, la moderna stele di Rosetta si chiama “metodi matematici” e per fortuna non mancano i decifratori. Ebbene, se si prosegue nella lettura, verrà fuori la più classica fallacia – illustrata ottimamente da Bastiat – del post hoc, ergo propter hoc [3], ovvero: dato che i due eventi sono consecutivi, appare ovvia la conseguenza del secondo e la causa del primo; così ovvia che manca il nesso e la relativa spiegazione.

Un esempio ancora più estremo – che infatti non ho voluto utilizzare come isolato per paura di una critica sulla tendenza ad estremizzare l’argomento per farlo volgere a mio vantaggio – è il moltiplicatore keynesiano: in quel caso, l’errore è talmente grossolano che basta un’infarinatura matematica, diciamo a livello di scuola superiore – per cogliere il fallo: il moltiplicatore nasce dal niente, senza nessuna base concreta a giustificarlo, come se si fosse manifestato per noi “il” profetico dogma centrale dell’economia da non mettere in discussione; tuttavia, come nella dimostrazione dell’uguaglianza tra tutti i numeri [4], si deve avere il giusto occhio ed altrettanta capacità di ragionamento per accorgersi dell’errore e dichiararlo; non dimentichiamo che fu un bambino ad urlare che il re era nudo.

La verità è che, sempre più spesso, dietro la complessità si celano fallacie di ogni genere e vuoti teoretici significativi, che vengono lasciati passare semplicemente perché obnubilati dall’assurdo contesto in cui sono inseriti. È ormai entrato nel sentire comune il credere che se una cosa è di facile comprensione vi si celano degli errori; mentre se è assurdamente complicata, sicuramente dipinge uno scenario che ha colto tutte le sfaccettature possibili della realtà avvenire in modo da meglio caratterizzarle e gestirle. Questa è semplicemente follia; perchè un imprenditore o – più in generale – un individuo non può utilizzare gli stessi ragionamenti che applica alla gestione della propria azienda (o semplicemente alla propria vita quotidiana) quando pensa alla situazione economica del proprio paese? Per quanto l’impresa sia grande, i macro-economisti ritengono che non possa competere con le dinamiche di uno stato (a volte – sic – più piccolo dell’azienda in questione) a causa delle mancanze basilari, quali stato sociale o stato di guerra, che invece sono pane quotidiano di una nazione. Dire che queste pratiche assomigliano molto ad uno schema Ponzi, che un privato cittadino verrebbe arrestato e multato per utilizzarle (Madoff e lo stesso Ponzi [5] docent) fa scadere nel semplicistico. Creare assurdi meccanismi causa-effetto e calibrarli su situazioni già passate per dimostrare quanto siano efficienti, a quanto pare, è più apprezzabile.

MMT: l’unica teoria anti-convenzionale presa in considerazione

A suffragio della mia tesi, che vuole il mainstream del pensiero economico contrario alla semplicità, basti osservare quale sia l’unica teoria, oltre al keynesianesimo imperante, presa in considerazione: la MMT, Modern Money Theory. Ideata in principio da Knapp e ripresa successivamente da Mitchell e Mosler, essa idea un modus operandi anti-crisi che preveda l’abbattimento della tassazione tramite l’aumento di moneta in circolazione, ovviando così ai problemi di tutti. Ovviamente di stampo socialisteggiante o quanto meno friedmaniano, volendo essa il monopolio della moneta in mano allo stato – per quanto piccolo esso sia – la teoria in questione ignora l’inflazione e le sue drammatiche conseguenze in un regime di paper money estremizzato com’è quello così immaginato.

O meglio, non la ignora totalmente ma la spiega utilizzando metodi matematici di dubbia provenienza e razionalità e descrizioni generalistiche estremamente complesse per evidenziare i motivi di un’evidente superiorità di questa teoria sulle altre.

A mio avviso l’abnormità verbosa della MMT è il miglior testimone a favore di un chiaro sentiero anti-semplicità intrapreso dalle accademie economiche [6].

Non si fraintenda

Mi preme evidenziare la mia passione per la scientificità e per i metodi matematici in genere. La mia specializzazione è in finanza, forse la più matematica tra le scienze economiche. Questo appunto mondano sembrava a me opportuno non per la referenza vuota e retorica che porta con sé ma per dimostrare, almeno in parte, la mia non estraneità alla scientificità nell’economia, anzi la mia passione per essa, seppur applicata soltanto a determinate situazioni.

Elogio dell’Azione Umana

Ludwig Von Mises fu tra i primi a cercare strade alternative per spiegare le falle nell’economia neoclassica e nel suo homo oeconomicus. La strada, secondo Mises, è proprio quella di guardare ai propri comportamenti ed alle proprie convinzioni, per comprendere come esse possano modificare gli scenari cosiddetti razionalmente perseguibili. Per questo ci saranno sempre delle “perdite”, per questo il breve termine esiste e porta con sé dei danni collaterali per tanti, se non tutti gli attori del mercato. La comprensione di questo semplice assunto sta alla base della Scuola Austriaca, anzi, è il fondamento del libertarismo. Non esiste una teoria perfetta, specie nel breve termine; il fatto è che l’essere umano è fallibile per sua stessa natura, che piaccia o meno ai teorici neoclassici (e agli statalisti basti ricordare che l’apparato pubblico, almeno nella realtà odierna, si forma sulle spalle di persone in carne ed ossa, tali e quali a quelle le cui vite vengono da loro amministrate). Pertanto, urge diniegare le teorie perfette che non tengono conto, appunto, dell’attore principale: l’azione umana.

La semplicità, d’animo in questo caso, è il primo motore aristotelico che spiega tale approccio alla realtà degli austriaci; ed Henry Hazlitt è quello che forse ha raggiunto l’obiettivo nel migliore dei modi possibili.

Economia in una lezione

Forse è proprio “Economics in one lesson” l’opera più famosa di Hazlitt; sicuramente è quella che meglio racchiude la sua genialità come scrittore.

Egli infatti parte dall’ambizioso obiettivo di voler decifrare la spinosa realtà economica che lo circonda e tradurla in parole semplici per il lettore medio, in modo che anche lui si forgi le proprie armi e le utilizzi in difesa della propria libertà contro coloro che si spacciano come più preparati e quindi (sic!) in grado di gestire le vite degli altri meglio di come i gestiti stessi saprebbero fare.

Quando mi approcciai a quel libro, da laureando in economia, provavo in effetti un po’ di stizzosa spocchia accademica nei suoi confronti: possibile – mi domandavo – che io abbia studiato anni ed un libro di meno di duecento pagine li racchiuda?

Ebbene, non solo li racchiudeva, ma in semplici frasi ed altrettanto facili esempi smontava pezzo dopo pezzo le più grandi fallacie dell’economia del nostro tempo, fallacie su cui si sono strutturate politiche economiche quinquennali come cinquantennali.

Un testo ultra-contemporaneo

Si potrebbe pensare che un testo uscito nel 1977 non possa analizzare efficacemente la complessa situazione odierna. Ma la grandezza di Hazlitt – e della Scuola Austriaca in generale – oltre che nella semplicità sta anche nella continua attualità che pervade i suoi testi.

Grandezza di Hazlitt, oppure inadeguatezza dei popoli, che dopo quasi quarant’anni non solo hanno perseverato nelle politiche descritte in questo testo, ma le hanno anche aggravate ed accelerate, prendendosi periodicamente in giro criticando pseudo-liberalizzazioni per i danni creati da quelle infauste politiche, e riproponendole per alleviarli. Com’è come non è, il testo di Hazlitt sulla crisi inflazionistica è quanto mai attuale. Nel corso della lettura si troveranno grafici e tabelle, aggiornate al 1976; in quell’anno egli calcola che 100 dollari del 1940 equivalessero a 414,3. Se invece partiamo proprio da quell’anno, si calcola che gli allora $100 avessero lo stesso potere d’acquisto degli attuali 409,39. Un dollaro dal 1940 al 1976 aveva perso il 75,9% del suo valore; dal 1976 ad oggi (2013) ha perso il 75,6%. Obviam, il libro di Hazlitt è stato letto da pochi membri del Congresso.

La Crisi Inflazionistica, un libro per tutti (o quasi)

Per la sua semplicità e fluidità nello scrivere, per il suo ripetere incessantemente i passaggi chiave, la lettura di questo volume è adatta a tutti. O meglio, rappresenta un ottimo inizio per coloro che non hanno mai affrontato materie economiche da un punto di vista accademico o teorico; potrebbe essere di difficile comprensione per chi ha un grosso bagaglio nozionistico che si trascina dagli anni dell’università, acme ed acropoli del tempio del keynesianesimo e del marxismo da salotto.

Per questo motivo raccomando coloro che hanno una conoscenza della materia più vasta, ma sono approdati qui perché desiderosi di esplorare nuovi orizzonti, di lasciarsi andare e di fidarsi soltanto del proprio intuito e raziocinio, scevro da inutili pantomime teoretiche da Azzeccagarbugli.

Filippo Martini

Note:

[1] Adam Smith (1776), An Inquiry into the Nature Causes of the Wealth of Nations, W. Strahan & T. Cadell Editori.

[2] Ben Bernanke (2004), Essays on the Great Depression, Princeton University Press.

[3] Per approfondimenti, si veda Post Hoc, Ergo Propter Hoc.

[4] Trattasi di un semplice gioco matematico nel quale si dimostra, tramite un’identità, che tutti i numeri sono uguali. Ad un certo punto dello svolgimento, però, si divide per zero andando contro alle regole di quella parte di matematica che non comprende l’infinito come possibilità; perciò tutta la dimostrazione perde di significato. La difficoltà sta nel fatto che spesso questo enigma viene posto dal professore agli alunni come una nuova scoperta, il che rende complicata l’osservazione, non credendo l’alunno di avere le capacità né il ruolo per poter confutare il suo insegnante.

[5] Su truffa e previdenza sociale, si veda Carlo Ponzi, alias lo Zio Sam.

[6] Per maggiori informazioni sulla MMT, si vedano MMT for dummies e gli articoli ad esso collegati.

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